da il manifesto - 10 Agosto 2005, p.12
PENSIERO CRITICO
Europa, prove di unione senza sinfonia
L'Europa e` stretta nella tenaglia tra Usa e Cina. Per evitare la sua
trasformazione in meta di un irrilevante e nostalgico turismo culturale,
va avviato un serrato confronto critico con l'intera tradizione europea
e formulare così un nuovo inizio.
Vuota melodia L'«INNO ALLA GIOIA» di Beethoven e` diventato di fatto
la colonna sonora dell'Unione Europea. Un «cult» in cui l'invito
alla fratellanza ha spesso l'andamento di una marcia militare. Un'opera
dunque che esemplifica le attuali vicende del vecchio continente, stretto
tra vocazioni tecnocratiche e populismi xenofobi verso la minaccia turca.
SLAVOJ ZIZEK
L'inno dell'Unione europea, eseguito in numerose manifestazioni pubbliche
di tipo politico, culturale o sportivo, e` di fatto la melodia
dell' «Inno alla gioia»
dall'ultimo movimento della Nona Sinfonia di Beethoven, un
vero significante «vuoto» che puo` stare per qualsiasi cosa.
In Francia fu elevato da Romain Rolland, umanisticamente, a ode alla
fratellanza di tutte le genti («la Marsigliese dell'umanita`»);
nel 1938 fu eseguito come momento culminante dei Reichmusiktage e in seguito
per il compleanno di Hitler; nella Cina della rivoluzione culturale, mentre
si bollavano i classici europei, fu rivalutato come parte della lotta di classe
progressista, mentre nel Giappone di oggi e` diventato un cult in quanto
costituito di quello stesso tessuto sociale, per il suo presunto messaggio
di «gioia attraverso la sofferenza»; fino agli anni Settanta, vale
a dire quando le squadre olimpiche della Germania Ovest e della Germania Est
dovevano gareggiare insieme formando un'unica squadra tedesca, l'inno suonato
per le loro medaglie d'oro era l'Inno alla gioia e, contemporaneamente,
il regime razzista bianco della Rodesia di Ian Smith - che alla fine degli
anni Sessanta proclamo` l'indipendenza per mantenere l'apartheid, scelse lo
stesso motivo come inno nazionale. Persino Abimael Guzman, il leader (ora in
carcere) dell'ultra-terrorista Sendero Luminoso, quando gli fu chiesto quale
musica gli piacesse, cito` il quarto movimento della Nona di Beethoven.
Così possiamo facilmente immaginare una scena fantastica in cui tutti i
nemici giurati, da Hitler a Stalin, da Bush a Saddam, per un momento
dimenticano le loro rivalita` e partecipano allo stesso momento magico di
estatica fratellanza...
Una marcia turca
Ma prima di liquidare il quarto movimento in quanto «distrutto dall'uso
sociale», come ha detto Adorno, osserviamo alcune caratteristiche della
sua struttura. A meta` del movimento, dopo che abbiamo sentito la melodia
principale (il tema della gioia) in tre variazioni orchestrali e tre variazioni
vocali, questo primo climax e` seguito da qualcosa di inatteso che inquieta
i critici da centottant'anni, ossia dalla sua prima esecuzione: alla battuta
331 il tono cambia completamente e, invece di progredire in modo solenne,
come in un inno, il tema «della gioia» e` ripetuto nello stile della
«marcia turca» , preso a prestito dalla musica militare per gli
strumenti a fiato e a percussione che gli eserciti europei del XVIII secolo
avevano adottato dai giannizzeri turchi. Il registro e` qui quello di una
parata popolare carnevalesca, di una farsa (alcuni critici hanno persino
paragonato i suoni dei fagotti e della grancassa che accompagnano l'inizio
della marcia turca a peti...). E da questo punto in poi tutto va male, la
dignita` semplice e solenne della prima parte del movimento non viene piu`
recuperata: dopo la parte «turca» e in chiara contrapposizione
con essa, in una specie di fuga nella religiosita` piu` intima, la musica
corale (liquidata da alcuni critici come «fossile gregoriano» )
cerca di rendere l'immagine eterea di milioni di persone che si inginocchiano
abbracciate, contemplando timorose il cielo distante e cercando il dio paterno
e amorevole che deve risiedere sopra un tetto di stelle («ueber'm
Sternenzelt/ Muss ein lieber Vater wohnen» ).
La musica pero`, per così dire, si inceppa quando la parola
«muss» resa dapprima dai bassi, e` ripetuta dai tenori e dai
contralti, e alla fine dai soprano, come se questa ripetuta evocazione
rappresentasse un tentativo disperato di convincere noi (e se stessa) di cio`
che sa non essere vero, trasformando il verso «un padre amorevole deve
risiedere» in un atto disperato seppure implorante, e attestando
così che oltre il tetto di stelle non c'e` niente, nessun padre amorevole
e` li` a proteggerci e a garantire la nostra fratellanza.
Ma la cadenza finale e` la cosa piu` strana di tutte:
non sembra affatto di Beethoven, ma somiglia piuttosto a una versione
piu` altisonante del finale del «Ratto del serraglio» di Mozart,
combinando gli elementi «turchi» con il veloce spettacolo rococo`.
(E non dimentichiamo la lezione di quest'opera di Mozart: la figura
del despota orientale vi e` presentata come un vero padrone illuminato).
Il finale e` dunque uno strano miscuglio di orientalismo e regressione
nel classicismo del tardo XVIII secolo, una doppia fuga dal presente storico,
una silenziosa ammissione del carattere puramente fantasmatico della gioia
della fratellanza che dovrebbe abbracciare tutti. Se mai e` esistita una musica
che letteralmente «decostruisce se stessa» , questa lo e`.
Nessuna meraviglia se gia` nel 1826, due anni dopo la prima esecuzione,
alcuni critici definirono il finale «una festa dell'odio verso tutto cio`
che puo` essere chiamato gioia dell'uomo» .
Qual e`, allora, la soluzione? Per spostare l'intera prospettiva e
problematizzare la primissima parte del quarto movimento: in realta`
le cose non vanno male solo alla battuta 331, con l'inserimento della
marcia turca. Vanno male fin dall'inizio. Dobbiamo accettare l'idea che
nell'«Inno alla gioia» c'e` qualcosa di insipido, di fasullo,
sicche` il caos che inizia dopo la battuta 331 e` una sorta di «ritorno
del represso» un sintomo di qualcosa che non andava sin dall'inizio.
Il sintomo del represso
E se avessimo addomesticato l' Inno alla gioia eccessivamente? E se ci
fossimo troppo abituati a considerarlo un simbolo di gioiosa fratellanza?
Cosa avverrebbe se dovessimo considerarlo daccapo, scartando cio` che e` falso?
Non e` forse lo stesso, oggi, per l'Europa? Dopo avere invitato milioni di
persone, dal piu` alto al piu` basso (il verme) ad abbracciarsi, la seconda
strofa termina sinistramente: «Ma colui che non puo` gioire, si trascini
via in lacrime» («Und Wer's nie gekonnt, der stehle/ Weinend sich
aus diesem Bund» ). L'ironia che l' Inno alla gioia di Beethoven sia di
fatto l'inno europeo sta, naturalmente, nel fatto che la causa principale
dell'attuale crisi dell'Unione e` proprio la Turchia: secondo la gran parte
dei sondaggi, quelli che hanno votato no ai recenti referendum in Francia e
in Olanda lo hanno fatto principalmente perche` erano contrari all'ingresso
della Turchia nell'Ue. Il no puo` poggiare sul populismo di destra (no alla
minaccia turca alla nostra cultura, no alla mano d'opera a basso prezzo dei
migranti turchi) oppure sul multiculturalismo liberale (la Turchia non va
fatta entrare perche` nei confronti dei curdi non si mostra abbastanza
rispettosa dei diritti umani). E la posizione opposta, il sì, e` tanto
falsa quanto la cadenza finale di Beethoven. La Turchia deve dunque essere
ammessa nell'Unione, o deve «trascinarsi in lacrime via dall'Unione
(Bund)»?
L'Europa puo` sopravvivere alla «marcia turca»?
E se, come nel finale della Nona di Beethoven, il vero problema non fosse
la Turchia, ma la stessa melodia di base, il canto dell'unita` europea
come viene eseguito dall'elite pragmatica e tecnocratica, post-politica,
di Bruxelles? Cio` che ci serve e` una melodia totalmente nuova, una nuova
definizione di Europa. Il problema della Turchia, la perplessita`
dell'Unione europea sulla Turchia, non attiene alla Turchia in quanto tale
ma alla confusione sulla stessa natura dell'Europa.
Dove ci troviamo, dunque, oggi? L'Europa e` in una grande tenaglia, con
l'America da una parte e la Cina dall'altra. L'America e la Cina, viste
metafisicamente, sono uguali: la stessa disperata frenesia di una tecnologia
senza freni e un'organizzazione dell'uomo medio priva di radici. Quando il
piu` remoto angolo del pianeta sara` stato conquistato con la tecnica e
sara` sfruttabile economicamente; quando un qualsiasi incidente, ovunque vi
piaccia, diventera` accessibile con la massima velocita`; quando, attraverso
le dirette televisive, potremo «vivere» contemporaneamente una
battaglia nel deserto iracheno e un'opera in scena a Pechino; quando in un
network digitale globale il tempo non sara` altro che velocita`, istantaneita`,
e simultaneita`; quando il vincitore in un reality show televisivo contera`
come l'eroe di un popolo; allora sì, su tutto questo putiferio continuera`
ad aleggiare come uno spettro la domanda: per che cosa? - per arrivare dove? -
E poi?
Chiunque conosca minimamente Heidegger, naturalmente, riconoscera` facilmente
in queste righe una parafrasi ironica della diagnosi di Heidegger sulla
situazione dell'Europa a partire dalla meta` degli anni `30 (Introduzione
alla metafisica). C'e` effettivamente bisogno, tra noi europei, di cio` che
Heidegger ha chiamato Auseinandersetzung (confronto interpretativo) con il
passato, non solo degli altri ma anche della stessa Europa in tutta la sua
ampiezza, dalle sue radici antiche e giudaico-cristiane all'idea,
recentemente defunta, del welfare state.
Modelli a confronto
Oggi l'Europa e` divisa tra il cosiddetto modello anglosassone - accettare
la «modernizzazione» (adattamento alle regole del nuovo ordine
globale) - e il modello franco-tedesco - salvare il piu` possibile del welfare
state della «vecchia Europa».
Sebbene opposte, queste due opzioni sono le due facce della stessa medaglia, e
il nostro vero compito non e` ne` tornare a un passato idealizzato -
quei modelli sono chiaramente esauriti - ne` convincere gli europei che,
se vogliamo sopravvivere come potenza mondiale, dobbiamo nel piu` breve
tempo possibile adattarci ai recenti trend della globalizzazione.
Ne` il nostro compito e` l'opzione forse peggiore, la ricerca di una
«sintesi creativa» tra le tradizioni europee della globalizzazione
per ottenere quella che si e` tentati di chiamare «globalizzazione dal
volto europeo» .
Ogni crisi e` in se stessa un'istigazione a un nuovo inizio; ogni crollo di
misure strategiche e pragmatiche a breve termine (per la riorganizzazione
finanziaria dell'Unione, ecc.) una benedizione nascosta, un'opportunita`
di ripensare le stesse fondamenta. Cio` di cui abbiamo bisogno e` un recupero
attraverso la ripetizione (Wieder-Holung): attraverso un confronto critico
con l'intera tradizione europea, bisognerebbe riproporre la domanda
«Cos'e` l'Europa?» o , piuttosto, «Cosa significa per noi
essere europei?», e cos'e` formulare un nuovo inizio.
Il compito e` difficile, ci costringe a correre il grosso rischio di affrontare
l'ignoto. Tuttavia la sua unica alternativa e` una lenta decadenza, la graduale
trasformazione dell'Europa in cio` che fu la Grecia per l'impero romano maturo,
la meta di un turismo culturale nostalgico senza effettiva rilevanza.
Nelle sue Notes Towards a Definition of Culture («Note per una definizione
della cultura»), il grande conservatore T. S. Eliot osservava che ci sono
momenti in cui l'unica scelta e` quella tra il settarismo e la non fede,
quando il solo modo per tenere viva una religione e` compiere una scissione
settaria dal suo cadavere. Oggi questa e` la nostra unica chance: solo per
mezzo di una «scissione settaria» dall'eredita` europea
«standard», tagliandoci via dal cadavere in putrefazione della
vecchia Europa, potremo tenere viva la rinnovata eredita` europea.
Traduzione di Marina Impallomeni
pagina festival